Loading

21 novembre, 2023

backstage teaser G&B

 

24 ottobre, 2022

Guggenheim & Beckett - a short Parisian love story (by Regiana Queiroz)


How the tempestuous love story between Peggy Guggenheim and Samuel Beckett - born at the 1937 Santo Stefano dinner hosted by James Joyce in Paris - changed the point of view of the woman at the center of the Modern Art world in the twelve intense days of sex and champagne.

crowdfunding:
https://gofund.me/640c6995

 

16 settembre, 2022

Marfellows - un film di Regiana Queiroz


 Marfellows

“L'assenza di una storia ci costringe a inventarla e non c'è dubbio che la finzione faccia un lavoro migliore della verità.”

Marfellows, un film su Lucia Joyce, sta a Finnegans Wake di James Joyce così come Ulisse, dello stesso autore, sta a l'Odissea di Omero. I parallelismi funzionano solo come metafora strutturale, estetica e di significato. 

Attraverso più strati di comprensione, come una pittura cubista, utilizzando un linguaggio onirico e polisemico capace di raccontare la storia attraverso neologismi e flussi di coscienza, il cinema può -ispirandosi alle innovazioni linguistiche di Finnegans Wake (opera che Joyce scrisse a causa della simbiosi creativa con sua figlia), i cui fatti narrati non si configurano mai in certezze e l'intera realtà è costruita su congetture e possibilità - creare qualcosa che va oltre al film.

La parola "marvellous" si presenta in Finnegans Wake come "marfellows" (marrafiglia), uno stratagemma che permette di sovrapporsi a "la selvaggia meraviglia", una strofa di una poesia scritta da Joyce a Lucia quando aveva sei anni. 

Il libro di Joyce è una rappresentazione della dinamica permanente dei significati del mondo come un sogno collettivo in cui le ipotesi di lettura sono tante per sua logica non cronologia nemmeno sequenziale. Il film di Queiroz invece, aspira all'interno di un'esperienza estetico-narrativa della creazione e non della comunicazione - (modulando relazioni, situazioni, persone e spazi, in un cinema quasi deleuziano, oltre la rappresentazione) pensare l'intervento dell'arte nella creazione del pensiero della differenza. 

Come tante altre donne del suo tempo considerate geniali e pazze, Lucia ha trascorso tre quarti della sua lunga vita rinchiusa negli ospedali psichiatrici in Europa. Divenne anche paziente del famoso Carl Gustav Jung, che ha rinunciato a curala dopo pochi mesi. 

Dimenticata, abbandonata e cancellata, Lucia non ha lasciato quasi traccia, perché tutto ciò che ha prodotto è stato distrutto o bruciato. Negli anni '20 a Parigi era considerata un genio della danza moderna e conosceva diversi personaggi illustri del suo tempo.

Il rapporto tra padre e figlia era così simbiotico che molti teorici vedevano la follia di Lucia come un'estensione della personalità di Joyce.

Lucia voleva fortemente essere una donna moderna, all'epoca è apparsa in un film di Jean Renoir, e tra gli spettacoli con Isadora Duncan e una compagnia di balletto russa, ha scritto articoli per una rivista belga, tra cui uno su Charlie Chaplin. È stata un'artista pioniera che ha partecipato alla nascita del modernismo. 

La stampa parigina ha persino affermato che un giorno James Joyce sarebbe stato conosciuto come il padre di Lucia. Tutto il suo genio e il suo potenziale rendono il suo ostracismo psichiatrico ancora più tragico.

05 luglio, 2022

Utopia in black


utopia in black - Regiana Queiroz from Regiana Queiroz on Vimeo.

Un’opera nera

 

Nel 1909 un giovane poeta ungherese, Mihaly Babits, scrive questa poesia, “Fekete orszag” (Il paese nero) che vi riporto nella traduzione di Marta Koszegi.

 

Ho sognato un paese nero,

dove ogni cosa era nera,

tutto nero, ma non solo fuori:

fino all’osso, al midollo nero,

nero,

nero, nero, nero.

Nero il cielo e nero il mare,

neri gli alberi e nera la casa,

nero l’animale, nero l’uomo,

nera la gioia, nero il lutto,

nero il metallo e nera la pietra,

nera la terra e neri gli alberi,

nero l’uomo e nera la donna,

nero, nero, nero il mondo.

Puoi scavare, puoi tagliare

la materia pigra, compatta,

terra nera, montagne nere

batte solo il tuo picco: benché attingi

nel profondo ruscello d’inchiostro

ancora più nera fluttua, sale;

guarda il seme dell’erba, le ghiande dell’albero,

le uova della tortorella, l’embrione

è nero, nero, nero,

nera la tela e nera la mente,

nero il viso e nero l’affanno,

nera la vena e nero il sangue,

nero il midollo e nero l’osso.

Colore diverso è lo smalto sfuggente del sole,

il sole è il pittore di ogni colore:

nero è dentro le viscere della terra,

non è la luce a dipingere il nero

con il suo pennello snello,

no:

nera è l’anima occulta della materia,

ohimé,

è nera, nera, nera.

 

Non sappiamo se Adorno conoscesse questo poeta, poi diventato molto noto per le sue traduzioni di classici italiani e tedeschi. Però possiamo dire che molto prima di farne oggetto di molti suoi scritti sull’arte, questo tema del nero come materia essenziale ma non reale era già presente nel cuore dell’Europa, che si apprestava a vivere tempi molto oscuri.

 

I decenni scorrono ma questo nero non passa, non riusciamo a liberarcene. Se un’artista brasiliana pensa alle Malebolge (“di color ferrigno” ci dice Dante, un grigio molto scuro) per raccontare il mondo instaurato da Bolsonaro, e se trova il modo di raccontare una Utopia in Black per riappropriarsi di una estetica adorniana forse abbandonata troppo in fretta, evidentemente qualcosa di quei tempi oscuri è ancora molto presente.

Adorno era un filosofo, a lui interessava porre domande migliori, che svelassero quello che una realtà poco sensata stava oscurando, stava coprendo con chiacchiere pericolose, violente, dannose. Queiroz è un’artista: ha un altro modo di porre domande, ne fa oggetti, cose, quella categoria tutta speciale di prodotti umani che chiamiamo, in mancanza di meglio, “opere d’arte”; nome che è anche un buon sistema per disinnescarle, per chiuderle in spazi controllati - come a volte si fa con i filosofi scomodi: gli si fa bere la cicuta, li si mette in croce, li si brucia vivi sulla pubblica piazza; i più si chiudono nelle accademie, soli a parlarsi addosso. Qualcosa ne arriva a chi fa arte.

 

Queiroz sembra avere molto chiaro questo problema, e di Adorno e del suo rapporto molto speciale con il nero vuole fare una divulgazione; certo, come può farlo un’artista, cioè non semplificando nulla affinché sia più facilmente vendibile, ma trasformandolo in altre complessità. Perché quel suo nero - forse lo stesso che sognava Babits, forse lo stesso che inquietava Adorno - non è affato semplice, non è una omogenea spessa patina che copre le cose, un fondo di abisso nel quale ogni cosa è indistinta. Quel nero produce complicate sfumature che, al contrario di quello che fa la luce, non rivelano il visibile, ma l’invisibile; non aiutano la nostra comprensione della realtà, ma complicano il nostro rapporto con l’immaginario, l’irrazionale, il frammentario, l’incomprensibile, cioè con le cose che usiamo per raccontarci la realtà.

 

Ecco che allora i lavori di Queiroz non servono - un po’ come tutta l’arte - a “capire” qualcosa. Se servono a qualcosa, servono a complicarla: aggiungono degli strumenti, aprono altre possibilità, indicano altre vie. Sono forse oggetti in partenza dal nero; questo non è il loro risultato ma, come voleva Adorno, un ambiente, una presenza costante, un rumore di fondo che che, come quello individuato dagli astrofisici in ogni direzione dello spazio più nero, è il rumore dell’origine. La sua dimensione utopica non è quella del sogno irrealizzabile, ma letteralmente del luogo che non esiste, e perciò sempre presente ovunque - in sogno, in immagine, in metafora.

Quieroz ce ne produce frammenti, di varie dimensioni e materiali. Sta a noi farne elementi di un disegno sensato. 

 

Lorenzo Gasparrini - dottore di ricerca in Filosofia Estetica. Ha collaborato con le cattedre di Estetica della facoltà di Filosofia dell’Università Sapienza di Roma.

instagram Utopia in black


17 febbraio, 2022

IMDb

Regiana Queiroz IMDb

 

26 novembre, 2021

LA MOSCA NELLA ZUPPA: REGIANA QUEIROZ


 

Versatile, viva, colta, senza peli sulla lingua, Regiana Queiroz, brasiliana di São Paulo ma da diversi anni in esilio permanente europeo  - esilio obbligato, come tanti suoi illustri colleghi degli anni 60 e 70 – in una mistura caoticamente positiva di lingue, culture, caratteristiche e abitudini di São Paulo, Rio de Janeiro, Parigi, Venezia e Milano ecc. – realtà e situazioni che domina senza problemi -, porta un contributo fresco, nuovo e dinamico nell’ambiente cinematografico un po’ stantio e molto penalizzato da quest’epoca di pandemia.

Figlia d’arte (la madre artista plastica), Queiroz studia Giurisprudenza per poi specializzarsi in Psicopatologia alla Facoltà di Medicina dell’Università di São Paulo. Nel 2010 completa la sua formazione alla Scuola Civica di Cinema Televisione e Nuova Media di Milano.

La sintesi di tutto ciò si evidenzia in quanto finora realizzato e progettato da Queiroz – 18 opere, tra regie, soggetti, sceneggiature, lungo, medio e cortometraggi, documentari e “fiction”. Tra cui spiccano le interviste di Qual è il tuo film d’amore preferito? (2008), il cortometraggio d’animazione dell’anno successivo, Cielo, e Billie Holiday canta per Che Guevara, lungometraggio sempre del 2009 su dubbi, incertezze, speranze e illusioni di certa gioventù milanese. La tessera fra i denti, cortometraggio del 2011 adattato da un racconto di Lygia Fagundes Telles, mostra una delicatezza di linguaggio che non tradisce lo spirito della scrittrice paulista. Così come due sceneggiature successive, una del 2017 – Heidegger, te perdoo – e l’altra del 2018 – Fukushima Mon Amour – vanno oltre la semplice citazione del cinema psico-filosofico (il primo) e della “tranche de vie” godardiana (il secondo), destreggiandosi senza difficoltà apparenti fra due scuole cinematografiche non delle più semplici ed accessibili. Senza dimenticare Laos – acronimo di Lovers and Other Strangers – che racconta e indaga le storie di sei personaggi, due psicoanalisti e una cartomante che nel dolore e nell’ironia ritrovano (forse) il senso della vita.

È nel lato politico-sociale, però, che l’analisi critica, il resoconto oggettivo, la padronanza disinvolta del linguaggio cinematografico e lo spirito – perché no? – “interventista”, partecipante, di Queiroz offrono i momenti più alti. Mi riferisco, per esempio,  As Penhas (2018), realizzato con pochissimi mezzi, che affronta senza retoriche di circostanza la violenza domestica, e a Carnaval Devoto (2014), un lungometraggio documentario (strutturato come la Divina Commedia) sul Círio de Nazaré, una festa popolare religiosa di Belém, nel Pará, che arriva a estremi di alienazione di massa difficilmente immaginabili.

Da non dimenticare, poi, il recente (2021), lucido e impietoso Malebolge – dove la presenza della struttura infernale dantesca si annuncia già nel titolo - che racconta, accompagna, analizza e critica l’ascesa al potere in Brasile dell’estrema destra e del suo leader Jair Bolsonaro, paragonando con estrema efficacia situazioni e momenti di oggi a situazioni e momenti descritti da Pier Paolo Pasolini negli anni 70, nel suo ultimo Salò o le 120 Giornate di Sodoma.

Infine, una necessaria appendice: As Maconhistas (High Ladies), del 2018, è un progetto di serial differente e divertente centrato su alcune signore di mezza età alla scoperta di pregi e virtù della canapa indiana.

Claudio M. Valentinetti

15 marzo, 2021

Malebolge documentario di Regiana Queiroz

 

Roberto Silvestri 

“La società consumista ha come destino il consumar tutto, anche i propri escrementi, cioè sé stessa”. Oggi, se Pasolini aveva ragione, 46 anni dopo Salò, e nel settimo centenario dantesco del 25 marzo, siamo catapultati fino al collo nelle Malebolge, canto XVIII, ottavo cerchio dell’Inferno, tra il versetto 111 e 116. E dall’insostenibile e dantesca lettura-invettiva pasoliniana delle 120 giornate di Sodoma come metafora del fascismo, la più alta espressione narrative delle radici del male esposta nel libro del divin Marchese de Sade. Costruzione ambiziosa e riuscita quella di un film italo-brasiliano diretto da Regiana Quieroz, che prende il titolo da Dante Alighieri e l’ispirazione dal rapporto tra Sade, Pasolini e quel Brasile ancora una volta attratto dalla soluzione dittatoriale. 
Quei dannati, talmente sporchi di sterco, infatti, che non si capisce se siano laici o chierici, cioè i ladri, falsari, ipocriti, adulatori, consiglieri fraudolenti, seduttori, maghi e ruffiani oggi, da Salò, si trasferiscono nei quartieri blindati di Rio de Janeiro, dove il quartetto malefico e perverso, presidente, vescovo, duca e magistrato hanno il nome di Jair Bolsonaro (Il presidente); Magno Malta, il deputato fondamentalista cristiano, ex senatore autore del progetto di legge per criminalizzare l’aborto sempre e comunque (il vescovo); Sergio Moro, avvocato ed ex ministro della giustizia, il magistrato che incriminò un innocente (Lula) e frodò un’elezione presidenziale; Paulo Guedes, banchiere e ministro dell’economia che dal vicino di casa Pinochet ha appreso come arricchire i ricchi e impoverire i poveri e ucciderli se necessario (il duca, simbolo di quella aristocrazia che le poche famiglie che da sempre controllano il paese e impediscono la riforma agraria a costo di sterminare di intere comunità, come quella religiosa di Canudos alla fine dell’800, episodio di messianesimo rivoluzionario che ha segnato la nascita del cinema novo brasiliano degni anni 60).
Al loro fianco, le signore che hanno eccitato le loro più diaboliche macchinazioni: Tanaina Paschoal, il deputato di stato che ha guidato la crociata anti Dilma Roussef; Damares Alves, la ministra della famiglia che ha strumentalizzato il suo essere vittima di molestie sessuali da bambina per diventare la Giovanna d’Arco dei feti, la guerrigliera antiabortista, la nemica di Darwin e dell’insegnamento scientifico nelle scuole; Alexandre Frota, l’ex porno star poi esperto in protesi sessuali maschili e grande difensore in tv degli abusi sessuali sulle donne e il filosofo Olavo de Carvalho, convinto che la terra è piatta perché come sappiamo il neo-sofismo è la nuova professione redditizia e truffaldina degli intellettuali opportunisti.
Così, mentre Jair Messias Bolsonaro, presidente del Brasile, è stretto oggi in triplice morsa, tra pandemia negata ma devastante, magistratura in minaccioso avvicinamento e incubo Luiz Inacio Lula da Silva - riabilitato dopo i processi farsa il leader del PT è pronto a defenestrarlo nel 2022 - esce in rete questo film di 74 densi minuti che decostruisce, con profondità e originalità estetica, acume psichiatrico e micidiale umorismo, l’ennesima ascesa dell’estrema destra autoritaria in Brasile.
Terrorizzata dai 15 anni di politiche sociali avanzate, i padroni secolari di Brasilia e la classe media, perfino intellettuale, che ormai vive le tasse come il patibolo sono infatti riusciti, con ogni mezzo necessario, a capovolgere miracolosamente la situazione.
Come hanno fatto? Tensione sociale aizzata dopo il crollo del prezzo del petrolio. Macchina del fango contro Dilma Roussef, “la guerrigliera presidente”. Si usarono gli stessi trucchi e fake news che Rede Globo aveva spacciato anni prima per far fuori il pericoloso Brizola. Se i ragazzi del funky si allenavano sulla spiaggia alla capoeira eccoli trasformati con destrezza di montaggio in pericolose bande assalta-turisti e rapina-bagnanti in prime-time tv. E poi l’impeachment. E vedremo le commuoventi sequenze della autodifesa di Djlma, dal documentario Il processo di Maria Ramos, ma non le immagini dei suoi accusatori, le più imbarazzanti mai viste da chi crede che democrazia parlamentare non sia sinonimo di talebana Inquisizione religiosa. Deformare dunque i principi garantisti della democrazia per imprigionare Lula e impedirgli di essere rieletto nel 2018 – era irraggiungibile nei sondaggi - attraverso una macchinazione tra il giudice istruttore Moro e il pubblico ministero e quel teorema car-wash che ci ricorda tanto il nostro funesto ma indiscutibile Teorema Calogero…
Il giurista italiano Luigi Ferrajoli lo commenta, nel film, già come tipico processo inquisitorio, privo del requisito di imparzialità e di separazione tra giudizio e accusa, fatto che pochi giorni fa è stato riconosciuto anche dalla magistratura federale brasiliana che ha dichiarato rieleggibile Lula.
Inventare successivamente un attentato all’arma bianca al candidato Bolsonaro, più o meno protetto dalle sue guardie del corpo e non senza qualche dettaglio andato a male (con ricostruzione chirurgica di un ano sintetico e di una “borsa” esterna a far da intestino). L’attentatore di Jair Bolsonaro, amico del figlio di Bolsonaro, Eduardo, fu assolto senza che alcuno facesse ricorso…. E qui si usano le immagini di A facada no Mito, anonimamente scaricate per riflettere su You Tube sui dettagli mediatici che ci sfuggono. Utile gioco. Ma nel frattempo il candidato, più oligofrenico e paranoico appariva, più saliva nei sondaggi, del 30% dopo la ferita all’addome. Anche questo è un sequel: nel 1989 per incolpare il PT era stato sequestrato a fine sondaggi Abilio Diniz. Ma si dimentica tutto. In Italia ci si dimentica perfino di Pinelli.
E infine l’uso dei predicatori evangelici per aizzare in tv e sui social all’omofobia e all’odio dei “pro aborto” lapidati come “assassini seriali” di cittadini-feti, assecondati da una nuova star dell’immaginario demenziale, l’astrologo Olavo de Carvalho, nouvelle philosophe della destra global.

E poi, da presidente eletto, l’arresto a Siviglia di un collaboratore di Bolsonaro con 35 kg di cocaina nella valigia diplomatica (si andava a un G20).
Il ministro dell’economia e banchiere (ipnotizzato dalla scuola di Chicago) Paulo Guedes, adoratore e nostalgico senza pudori dell’Atto costituzionale n.5 che magari sarebbe da reintrodurre. E’ l’Atto che nel 1968 ratifico la svolta fascista della dittatura militare dando carta bianca al presidente Medici per sospendere i diritti politici, permettere l’uso della tortura e l’esecuzione dei prigionieri, censurare la stampa, mettere fuori legge i partiti…. Da cui, corollario, l’elogio funebre al generale Carlos Alberto Brilhante Ustra, condannato come tortuatore e esecutore di prigionieri, ma poi liberato e morto nel 2015 in ospedale non in cella. L’importanza di un club esclusivo di killer, amici dei cittadini più “al di sopra di ogni sospetto”, camuffato da poligono di tiro, e pronti alla bisogna…
Ci racconta questo e altro un film che ha ben assorbito la lezione comica di Michael Moore (sono sferzanti e grottesche le vignette a forti tinte di Jota Camero che non perdono un solo episodio della storia) e tragica di Pier Paolo Pasolini.
Rimettere insieme cose che si vuole tener separate. Dare un senso spazio temporale all’apparente “non senso” di fatti sparpagliati. Essere sorprendenti e comunicativi. “La morte infatti - scriveva Pasolini - non è nel non poter comunicare, ma nel non più essere compresi”.

E per potere essere compresi bisogna dimostrare di essere estranei al “meccanismo di corruzione” vigente e che il qualunquismo afferma permeare tutto e tutti. Allora bisogna mostrarsi “poveri nello spirito”.
Come era Pasolini, nonostante le sue fuoriserie e pratiche desideranti scandalose, persino per Glauber Rocha come si legge a inizio film. Oppure dichiararsi esule politico, “un patriota tradito dalla patria”, come Chico Buarque de Hollanda tra il 1968 e il 1985. E così è oggi Regiana Queiroz, che firma questo incubo horror. Ed è fuggita in Italia per poterlo finire e dopo serie minacce di morte.
Dalla mezzanotte di domani 14 marzo 2021 è in anteprima mondiale, in visione gratuita e “politica” sul web vi consiglio di non perdere Malebolge di Regiana Queiroz.
 
Questo è il link, https://vimeo.com/511955024.
 
La scelta della data di uscita del film non è casuale. La notte del 14 marzo 2018, esattamente due anni fa, Marielle Franco, consigliere comunale i Rio, militante del Psol (Partito Socialismo e Libertà Brasiliano), sociologa, impegnata nella difesa dei diritti umani e sessuali, è stata assassinata da un commando armato.
Le indagini sulla spietata esecuzione, nell’ottobre 2019, hanno coinvolto pesantemente (e nell’ultima parte del film verificheremo le prove e l’autodifesa di Jair Bolsonaro) lo stesso presidente della repubblica.
Quali erano gli intollerabili “crimini” di Marielle Franco? Essere sfrontatamente lesbica e lavorare nelle favela nord di Rio con una tattica e una strategia opposta a quella glorificata in Tropa de elite, il dittico campione di incassi di José Padilha del 2009 e 2010: gli squadroni della morte sono l’unico deterrente necessario per proteggere l’ordine e sconfiggere droga e piccola criminalità. La nostra sicurezza in realtà è messa in crisi dalla criminalità grande (per esempio il Brasile, ex capitale del tropicalismo musicale oggi lo è dei morti per Covid), ma nessuno se ne deve accorgere. Perfino i critici cinematografici brasiliani di sinistra inneggiarono a Padilha, regista “all’americana”, magari dopo aver criticato Clint Eastwood e l’ispettore Callahan di Magnum force (Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan) che ci metteva in guardia già dal 1973 dai fascisti travestiti da poliziotti e fieri di esserlo e di farsi inquadrare, come il narciso Derek Chauvin.
Malebolge è un’opera poliedrica e di furia dantesca. Ma non è come sembra “un film di parte”. A meno che La signora in giallo e il commissario Colombo, di cui Queiroz condivide la stessa passione indagatrice, sono considerati propaganda manichea. Che i fatti debbano aprirsi, come un fiore, e non bloccarsi sul fermo immagine, è la lezione di Rossellini che Queiroz conosce. Non si fanno documentari per accumular domande e fare i cerchiobottisti, ma per dare risposte, aprire dialogo, con chi dialoga.
Così Malebolge ha la grinta di un implacabile documentario di controinformazione, come quelli della sinistra statunitense negli anni 80, in opposizione alla prepotenza neoliberista che impoveriva gli americani, fermava rivoluzioni (Grenada, Nicaragua…) e assassinava in Centro America (El Salvador, Costarica, Panama…).
Adesso sono i complotti e i maneggi criminosi ma efficaci della potente famiglia Bolsonaro da combattere e mettere in feconda prospettiva.
Cucendo come fa Blob materiali tv e del web provenienti da una ventina di emittenti e spiegando, in stile cubista, davanti, dietro, alto e basso dei fatti attraverso analisti ed esperti, cosa che il populismo imperante troverà scandaloso.
Si ricostruisce così con precisione e ritmo incalzante il ruolo dei 4 “Bolso” (lui di origine italiana, padovano per parte di padre, e i tre figli Jesus, Eduardo e Flavio) coprotagonisti del mosaico sulla controffensiva conservatrice globale. Anche lì come qui il commesso viaggiatore Steve Bannon, munito di kit reazionario da vendere al miglior offerente, ha addestrato gli adepti al mantra virale: visto che le ricette economiche di Marx sono fallite la sinistra utilizza Gramsci e la scuola di Francoforte per scatenare un “marxismo culturale” che ha l’obiettivo di distruggere la famiglia tradizionale anzi unica, quella composta da mamma e papà.
La necropolitica giallo-oro esige, nello specifico, dosi tossiche di machismo, misogina, omofobia, militarismo e razzismo. E poi. Ristabilire l’onore delladittatura militare 1964-1984 perché si è  opposta al comunismo terrorista ma non lo ha fatto con la radicalità necessaria, e dunque fermare subito chi indaga su torture e assassini di prigionieri avvenuti in quegli anni.

Scatenare la macchina del fango contro il nemico, che assicura sempre alti indici di ascolto e introiti pubblicitari a tv e siti commerciali. Per esempio nel caso di Haddad, l’avversario di Bolsonaro alle presidenziali, trasformarlo in pedofilo e fondamentalista gay, bersaglio prediletto dei predicatori evangelici e stampa taboid. Si è fatto lo stesso contro Hillary Clinton “prona ai poteri forti e implicata in un fosco giro di pedofili internazionali, oltre che moglie di un impresentabile marito”.
Per contro. Non criminalizzare mai il lavoro minorile e schiavistico. Distruggere l’Amazzonia in nome degli interessi agro-business: “assassinare gli indios non è reato”. Legalizzare i pesticidi letali. Censurare media, cinema e stampa. Scatenare l’intolleranza religiosa.
Erodere i diritti delle donne, per esempio proibire l’aborto di ogni tipo e scherzare in prime-time tv sulla dilettevole arte dello stupro. ”Qui si violenta solo chi se lo merita”.
Il sesso come obbligo e bruttezza, gerarchia dei poteri, merce muta, non parola che costruisce intimità e libertà fifty-fifty. La sequenza tv dello “stupratore felice” Alexandre Frota, ex porno star, poi deputato federale di destra, infine traditore di Bolsonaro, è un’ottima sintesi di come sono diventate oggi le tv pubbliche o private, del mondo. O non la guardate la tv il pomeriggio? Pasolini è passato invano. Già. Malebolge è anche un crito-film su Salò di Pasolini, ovvero un saggio critico scritto con le immagini e non solo con le parole, sul più indigesto dei capolavori del cinema, dalle consonanze strutturali e narrative profetiche (ne vedremo le sequenze chiave) rispetto a un paese che il regista, assieme a Maria Callas, aveva visitato in piena dittatura, nel 1970. E che probabilmente ha molto influenzato quel passaggio dalla “trilogia della vita”, Decamerone, Il fiore delle Mille e una notte e The Canterbury’s Tales (una redenzione che passa attraverso l’esaltazione del sesso nelle culture pre-capitaliste, come espressione diretta e carnale di un desiderio non ancora obbligato e mercificato) alla trilogia della morte, interrotta dalla morte del poeta al primo capitolo. Le più truci perversità scodellate in un gioco al massacro sado-masochista per vedere ben in faccia il potere che è fatto di soggiogati e di soggiogatori. Le violenze indicibili del film non sono come “fatti reali”, quelli di cronaca che si vedono nei Tg, ma sono meccanismi, costruzioni artistiche, che agganciavano il passato sadiano e il lontano passato dantesco al futuro genocidio culturale, alla mutazione antropologica che viviamo oggi, quando sentiamo che una regione del nord Italia vaccina solo chi è utile alla prostituzione dimenticando gli ottantenni o vediamo giocondi ragazzini in assembramento che se li chiami assassini restano muti, in silenzio, non capiscono.
Pasolini ci addestrava insomma a vedere i tg del futuro. Quando il sesso è la soddisfazione compulsiva di un obbligo sociale non un piacere estraneo al dovere e alle convenzioni sociali. Ecco perché la sovrimpressione tra inferno dantesco, libro maledetto di de Sade, film di Pasolini e neo-conservatorismo riesce perfettamente. E’ il silenzio dei brasiliani che si vede in primo piano, più assordante delle musiche nel soundtrack, Monteverdi, “fischia il vento e infuria la bufera” o la musica popolare. L’egemonia del consumismo è analoga al silenzio delle vittime di de Sade, cui viene letteralmente proibito di parlare, perché solo imbavagliando (libri, stampa, cinema) si esercita potere. Come personaggi wagneriani i brasiliani (e non solo loro) accettano il destino crudele come necessità, identificandosi con gli aggressori. Come Nietzsche potrebbe commentare: “Le esperienze atroci ci costringono a speculare se colui che le prova sia anche egli qualcosa di atroce”.
Regiana Queiroz, cineasta brasiliana, nata a San Paolo, cresciuta nello atelier di pittura della madre, laureata in giurisprudenza (specializzazione in psicopatologia), si è diplomata alla Scuola di Cinema Televisione e Nuovi Media di Milano, dove ha vissuto per qualche anno dal 2005.
E’ tornata in Brasile dove ha realizzato una decina di documentari, tra i quali Las Penhas (sulla violenza alle donne) e As Machonistas, una velenosa serie tv sulla borghesia paulista. Ma nel 2019, dopo le ripetute minacce di morte legate alla produzione indipendente di questo suo nuovo lavoro, è rientrata in Italia.
 

28 novembre, 2018

Malebolge - documentary




Malebolge: Regiana Queiroz's documentary on the rise of thefascist extreme-right in Brazil through the 2018 elections structured as "Salò o 120 giornate di Sodoma", Pier Paolo Pasolini's film on sadism of Italian fascism, based on the writings of the Marquis de Sade. The circles, inspired by Dante’s Divine Comedy: the Anteinferno, the Circle of Manias, the Circle of Excrement and the Circle of Blood.

11 luglio, 2018

AS PENHAS de Regiana Queiroz




"As Penhas" é um filme de Regiana Queiroz, tendo como testemunhas mulheres vítimas de violência que conseguiram romper o ciclo sobreviver e retomar a vida com dignidade e empoderamento. O documentário fala também da culpa do Estado e do Judiciário na violência contra as mulheres por não cumprirem tratados internacionais vigentes de Direitos Humanos assinados pelo Brasil. Filmado na Casa Sofia, centro de defesa e convivência da mulher no Jardim Ângela, São Paulo, com trilha sonora do talentosíssimo Bina Coquet, o documentário denuncia a fragilidade dos centros de apoio às mulheres, a cumplicidade do Estado nesses crimes e a possibilidade de sair do ciclo de violência sem virar estatísticas de feminicídio.

17 aprile, 2018

Trailer "As Penhas"

Trailer "As Penhas" from Regiana Queiroz on Vimeo.
As Penhas é um filme de Regiana Queiroz, tendo como testemunhas mulheres vítimas de violência que conseguiram romper o ciclo, sobreviver e retomar a vida com dignidade e empoderamento. O documentário fala também da culpa do Estado e do Judiciário na violência contra as mulheres por não cumprirem tratados internacionais vigentes de Direitos Humanos assinados pelo Brasil. Filmado na Casa Sofia, centro de defesa e convivência da mulher no Jardim Ângela, São Paulo, com trilha sonora do talentosíssimo Bina Coquet, o documentário denuncia a fragilidade dos centros da apoio às mulheres, a cumplicidade de Estado nesses crimes e a possibilidade de sair do ciclo de violência sem virar estatísticas de feminicídio.

Videoclipe Madeira de Lei

21 maggio, 2017

05 settembre, 2015

Avant Premier Carnaval Devoto

pré estréia 1° de outubro 
Cinema Olympia 
17:00
Belém 
(segue projeção Belém, Vigia e Brasília)