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05 luglio, 2022

Utopia in black


utopia in black - Regiana Queiroz from Regiana Queiroz on Vimeo.

Un’opera nera

 

Nel 1909 un giovane poeta ungherese, Mihaly Babits, scrive questa poesia, “Fekete orszag” (Il paese nero) che vi riporto nella traduzione di Marta Koszegi.

 

Ho sognato un paese nero,

dove ogni cosa era nera,

tutto nero, ma non solo fuori:

fino all’osso, al midollo nero,

nero,

nero, nero, nero.

Nero il cielo e nero il mare,

neri gli alberi e nera la casa,

nero l’animale, nero l’uomo,

nera la gioia, nero il lutto,

nero il metallo e nera la pietra,

nera la terra e neri gli alberi,

nero l’uomo e nera la donna,

nero, nero, nero il mondo.

Puoi scavare, puoi tagliare

la materia pigra, compatta,

terra nera, montagne nere

batte solo il tuo picco: benché attingi

nel profondo ruscello d’inchiostro

ancora più nera fluttua, sale;

guarda il seme dell’erba, le ghiande dell’albero,

le uova della tortorella, l’embrione

è nero, nero, nero,

nera la tela e nera la mente,

nero il viso e nero l’affanno,

nera la vena e nero il sangue,

nero il midollo e nero l’osso.

Colore diverso è lo smalto sfuggente del sole,

il sole è il pittore di ogni colore:

nero è dentro le viscere della terra,

non è la luce a dipingere il nero

con il suo pennello snello,

no:

nera è l’anima occulta della materia,

ohimé,

è nera, nera, nera.

 

Non sappiamo se Adorno conoscesse questo poeta, poi diventato molto noto per le sue traduzioni di classici italiani e tedeschi. Però possiamo dire che molto prima di farne oggetto di molti suoi scritti sull’arte, questo tema del nero come materia essenziale ma non reale era già presente nel cuore dell’Europa, che si apprestava a vivere tempi molto oscuri.

 

I decenni scorrono ma questo nero non passa, non riusciamo a liberarcene. Se un’artista brasiliana pensa alle Malebolge (“di color ferrigno” ci dice Dante, un grigio molto scuro) per raccontare il mondo instaurato da Bolsonaro, e se trova il modo di raccontare una Utopia in Black per riappropriarsi di una estetica adorniana forse abbandonata troppo in fretta, evidentemente qualcosa di quei tempi oscuri è ancora molto presente.

Adorno era un filosofo, a lui interessava porre domande migliori, che svelassero quello che una realtà poco sensata stava oscurando, stava coprendo con chiacchiere pericolose, violente, dannose. Queiroz è un’artista: ha un altro modo di porre domande, ne fa oggetti, cose, quella categoria tutta speciale di prodotti umani che chiamiamo, in mancanza di meglio, “opere d’arte”; nome che è anche un buon sistema per disinnescarle, per chiuderle in spazi controllati - come a volte si fa con i filosofi scomodi: gli si fa bere la cicuta, li si mette in croce, li si brucia vivi sulla pubblica piazza; i più si chiudono nelle accademie, soli a parlarsi addosso. Qualcosa ne arriva a chi fa arte.

 

Queiroz sembra avere molto chiaro questo problema, e di Adorno e del suo rapporto molto speciale con il nero vuole fare una divulgazione; certo, come può farlo un’artista, cioè non semplificando nulla affinché sia più facilmente vendibile, ma trasformandolo in altre complessità. Perché quel suo nero - forse lo stesso che sognava Babits, forse lo stesso che inquietava Adorno - non è affato semplice, non è una omogenea spessa patina che copre le cose, un fondo di abisso nel quale ogni cosa è indistinta. Quel nero produce complicate sfumature che, al contrario di quello che fa la luce, non rivelano il visibile, ma l’invisibile; non aiutano la nostra comprensione della realtà, ma complicano il nostro rapporto con l’immaginario, l’irrazionale, il frammentario, l’incomprensibile, cioè con le cose che usiamo per raccontarci la realtà.

 

Ecco che allora i lavori di Queiroz non servono - un po’ come tutta l’arte - a “capire” qualcosa. Se servono a qualcosa, servono a complicarla: aggiungono degli strumenti, aprono altre possibilità, indicano altre vie. Sono forse oggetti in partenza dal nero; questo non è il loro risultato ma, come voleva Adorno, un ambiente, una presenza costante, un rumore di fondo che che, come quello individuato dagli astrofisici in ogni direzione dello spazio più nero, è il rumore dell’origine. La sua dimensione utopica non è quella del sogno irrealizzabile, ma letteralmente del luogo che non esiste, e perciò sempre presente ovunque - in sogno, in immagine, in metafora.

Quieroz ce ne produce frammenti, di varie dimensioni e materiali. Sta a noi farne elementi di un disegno sensato. 

 

Lorenzo Gasparrini - dottore di ricerca in Filosofia Estetica. Ha collaborato con le cattedre di Estetica della facoltà di Filosofia dell’Università Sapienza di Roma.

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